La teologia cristiana non può prescindere dal Crocifisso sia per quanto concerne la sua identità che
la sua rilevanza.
La conversione, il cammino spirituale che ogni essere umano accetta di intraprendere dicendo sì alla Grazia di Dio, è un percorso che conduce sì ad abbracciare il Cristo risorto, ma il passaggio al Golgota è un passaggio obbligatorio, per vedere il Cristo risorto bisogna stare ai piedi della croce.
Gli abbandonati, gli empi, i disumanizzati e gli abbandonati dagli uomini, tutti coloro che sono oppressi e quelli che si sono resi conducono la loro esistenza sotto la croce, anche tutta la vita.
Il messaggio di Gesù è un messaggio che c’insegna a riconoscere come cose divine anche la bassezza e la povertà, la derisione e il disprezzo, l’oltraggio e la sventura, la sofferenza e la morte.
Solo se accetta incondizionatamente l’avvenimento originario della fede, la teologia cristiana può prendere dolorosa coscienza dei limiti imposti dal suo condizionamento economico, sociale, culturale e trascenderli. La morte in croce, il Crocifisso ci fa vedere un Dio che può intervenire, che può far scendere dalla croce il Logos incarnato, ma non lo fa, attraverso la croce vediamo un Dio che soffre, addirittura abbandona Suo Figlio.
I Giudei(che non credettero in Gesù) non potevano accettare che il Messia morisse sulla croce, emblema dei miserabili non dei forti e dei vincitori.
Per me la croce non è una sconfitta, né uno scandalo, Gesù si è offerto volontariamente, la sua passione è una passio activa, non è la resurrezione la vittoria sul peccato ma è il sacrificio del Golgota, ecco perché penso sia sbagliato parlare di resurrezione come di vittoria e della crocifissione come di sconfitta.
Chi nella passione di Cristo riesce a scorgere soltanto la sofferenza dell’uomo buono di Nazareth, sarà pure costretto a vedere in Dio una potenza celeste fredda, muta e non amata. Questa però sarebbe anche la fine della fede cristiana.
La teologia cristiana è dunque sostanzialmente costretta a riconoscere Dio stesso nella passione di Cristo e la passione di Cristo in Dio.
Se Dio sotto ogni aspetto fosse impassibile, sarebbe anche incapace di amare. Tutt’al più potrebbe amare se stesso, non gli altri, ma se Dio è amore allora si apre pure alla sofferenza che gli arreca l’amore per gli altri, rimanendo comunque, in forza del suo amore, sempre al di sopra del dolore che ne deriva. Dio non soffre come la creatura per mancanza d’essere.
Questa sofferenza è sofferenza divina. E’ la sofferenza di quel Dio che sostiene il mondo perché ne sopporta il peso. E’ la sofferenza del Padre che nel sacrificio del “suo proprio Figlio” (Rom 8,32) soffre per la redenzione.