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UN ESERCITO LIBERATO DALLA SETE
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ARGOMENTO: UN ESERCITO LIBERATO DALLA SETE

UN ESERCITO LIBERATO DALLA SETE 12/11/2012 21:37 #6482

UN ESERCITO LIBERATO DALLA SETE

(Giovanni 17:18; 1 Corinzi 10:31)



Verso l’anno 160, l’imperatore romano Marco Aurelio, in una campagna contro i Barbari, si trovò completamente accerchiato dal nemico.

In situazione disperata per l’impossibilità di rifornirsi di acqua, scrisse nel suo diario: “Dopo cinque giorni senz’acqua, mi misi a pregare gli dei del mio popolo; ma ignorato da essi, convocai coloro che, fra noi, portano il nome di cristiani, e li invitai a pregare per la nostra liberazione”. Anche i dettaglio riguardanti la preghiera di quei credenti sono stati annotati dall’imperatore nei suoi scritti.

“Dopo essersi inginocchiati, essi pregarono non solo per me, ma per tutto l’esercito, affinché tutti fossimo liberati dalla sete. Mentre si prostravano a terra e pregavano il loro Dio – un Dio che io non conosco – la pioggia cominciò a cadere a torrenti su di noi, e allo stesso tempo una grandine devastatrice si abbatté sull’accampamento nemico. Tutti riconobbero immediatamente l’intervento di un Dio che risponde alle preghiere”.

Impressionato da questa risposta miracolosa, l’imperatore redasse un editto che limitò, purtroppo solo per poco tempo, le persecuzioni contro i cristiani.

In un mondo che è sempre più nemico di Cristo, in qualunque posto Dio ci abbia messi, impegniamoci ad essere sempre disponibili verso gli altri, pronti ad aiutare e a rispondere, con la dolcezza e il rispetto che Dio vuole (1 Pietro 3:15, 16), a coloro che ci chiedono ragione della nostra speranza.
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Re: UN ESERCITO LIBERATO DALLA SETE 13/11/2012 00:56 #6486

di Marta Sordi

Protettore o persecutore dei Cristiani? Esaltato dalla tradizione pagana, l'imperatore Marco Aurelio fu visto senza ostilità dai cristiani. Aprì una nuova fase nei rapporti tra Chiesa e impero



Il regno di Marco Aurelio (161-180 d.C.) rappresentò una svolta importante nei rapporti fra l'impero romano e i Cristiani: da una parte egli inasprì la persecuzione, aggirando con "i nuovi decreti" il divieto traianeo di cercare i Cristiani e permettendo la ricerca di ufficio, dall'altra egli si fece promotore di una disposizione che, condannando gli accusatori dei Cristiani e scoraggiando le denunzie private, rese possibile la graduale uscita dalla clandestinità della Chiesa e la tolleranza di fatto che troviamo in atto sotto Commodo e sotto i Severi. Di Marco Aurelio, l'imperatore filosofo, esaltato dalla tradizione pagana e visto senza ostilità dagli scrittori cristiani contemporanei e tardo antichi, si potè dire pertanto che fu persecutore dei Cristiani e Protector Christianorum (Tertulliano, Apol. V, 4). Alla radice di questa apparente contraddizione ci fu un tragico equivoco: la diffusione nella II metà del II secolo, fra i Cristiani di Frigia e d'Asia, e poi, in tutto l'impero, dell'eresia montanista, la "nuova profezia" che aveva assimilato lo spirito delle rivolte giudaiche del I e del II secolo e che, diffondendo atteggiamenti antistatali e antisociali, incoraggiando provocazioni contro i templi e le statue degli dei e autodenunce, indusse l'imperatore e la classe dirigente imperiale a vedere per la prima volta nel Cristianesimo un pericolo politico.

Che Marco Aurelio confuse l'atteggiamento dei Montanisti con quello di tutti i Cristiani lo rivela sia il giudizio che egli dà di essi nei suoi Pensieri (XI, 3), quando parla della serena accettazione che l'anima deve avere davanti alla morte ed aggiunge: "Non per puro spirito di opposizione, come fanno i Cristiani" (la psilè parataxis era tipica dei Montanisti), sia il giudizio del portavoce di Marco Aurelio, Gelso, che, nel suo "Discorso Vero" del 178, nomina col loro nome molte eresie cristiane e le distingue dalla Grande Chiesa, ma non nomina i Montanisti, attribuendo ai Cristiani in generale i loro comportamenti. Anche il modo con cui l'imperatore aggirò il divieto traianeo del conquirendi non sunt senza mutarlo nei riguardi dei Cristiani, ma permettendo che essi fossero ricercati come sacrilegi (le provocazioni montaniste contro templi e statue potevano cadere sotto l'accusa di sacrilegio) rivela la gravita del fraintendimento: la clandestinità a cui le norme traianee avevano incoraggiato i Cristiani, permettendo che la vita della Chiesa si svolgesse e si consolidasse al riparo della proprietà privata, aumentava, in questa situazione, le preoccupazioni per l'ordine pubblico. Ma la "Grande Chiesa" non si identificava col Montanismo e non condivideva le pregiudiziali antistatali e antiromane dei seguaci di Montano e delle sue donne: negli anni fra il 176 e il 177 quattro Apologie indirizzate a Marco Aurelio si proposero di dissolvere l'equivoco: di queste apologie due, quelle di Apollinare e di Milziade, venivano dall'Asia, i cui vescovi avevano preso subito posizione contro il Montanismo, e da persone note anche per i loro scritti antimontanisti. Dall'Asia veniva anche l'apologia di Melitone di Sardi, di cui Eusebio ci conserva interessanti frammenti; da Atene quella di Atenagora, l'unica a noi conservata per intero.

In contrasto con le nostalgie giudaizzanti e antiromane del Montanismo, queste apologie riaffermavano il tradizionale lealismo dei Cristiani: in particolare, in contrasto con la condanna montanista del servizio militare, Apollinare, nell'unico frammento conservato da Eusebio, ricordava i Cristiani che militavano nella XII Legione Fulminata ed attribuiva alle loro preghiere il recente (del 174d.C.) "miracolo della pioggia", avvenuto durante la guerra con i Quadi e immortalato dalla colonna Antonina. Ancora più importante è la presa di posizione degli Apologisti a favore di due problemi politici che stavano a cuore a Marco Aurelio: la successione dinastica (l'imperatore voleva assicurare l'impero al figlio Commodo, in contrasto con l'ideologia senatoria della "scelta del migliore", perseguita nel II secolo dagli imperatori adottivi) e la ripresa della guerra contro i barbari, che avevano ricominciato a premere contro i confini dell'impero e della stessa Italia. L'augurio espresso da Atenagora, nel cap. 37 della sua Apologia, dell'ingrandimento dell'impero e della sottomissione dei barbari corrisponde infatti ai progetti di conquista e di costituzione di nuove province formulato da Marco Aurelio nel 175 e osteggiati da una parte del senato.

Le apologie del 176 e 177 si appellavano dunque non solo alla giustizia dell'imperatore, ma anche alla sua sensibilità politica, prospettandogli i vantaggi che sarebbero venuti all'impero e alla dinastia dall'adesione legale della forte minoranza cristiana alla sua politica.
A queste caute offerte la risposta venne, nel 178, dal portavoce di Marco Aurelio, Celso: egli risponde alle dichiarazioni di lealismo politico rinfacciando ai Cristiani la mancanza di solidarietà con l'impero nel momento del comune pericolo, l'astensione dalie cariche pubbliche e dal servizio militare, l'abbandono dell'imperatore nella lotta contro i barbari e, soprattutto, la clandestinità; egli appare però ben consapevole del fatto che i Cristiani sono ormai numerosi e che il loro appoggio può essere molto importante per l'impero. Mal dissimulata dalla violenta polemica dottrinale, Celso formula, per la prima volta, forse a nome dello stesso Marco Aurelio, una cauta proposta di pace: i Cristiani traducano il loro lealismo in una collaborazione attiva, sul piano politico e militare, escano dalla clandestinità, e l'imperatore lascia intendere Celso sarà disposto alla tolleranza. Perché se l'impero cadesse nelle mani dei barbari sarebbe grave per i pagani come per i Cristiani.
L'opportunità di un "concordato" che regolasse la coesistenza tra la Chiesa e l'impero sembra chiaramente avvertita: fedele alla vecchia mentalità romana secondo cui ubicumque multitudo esset ci doveva essere anche un legitimum rectorem multitudinis (Liv. XXXIX, 15, 11), Marco Aurelio sentiva un pericolo non nell'organizzazione gerarchica della Chiesa, ma nella sua clandestinità. È proprio questa esigenza di indurre i Cristiani ad uscire da una clandestinità che non avevano cercato, e a partecipare alla vita dello Stato, a garantire l'autenticità di una disposizione che Tertulliano attribuisce a Marco Aurelio (Apol. V, 6), proclamandolo protector Christianorum: con questo provvedimento l'imperatore non aboliva il delitto di Cristianesimo che restava superstitio illicita, ma comminava la pena di morte per gli accusatori dei Cristiani. Tale provvedimento, che è stato a torto ritenuto un'invenzione apologetica e che appare invece confermato dal processo del senatore cristiano Apollonio avvenuto a Roma subito dopo Marco Aurelio, nel 183/185, e finito con le condanne sia del martire che del suo accusatore, si inquadra assai bene nella tendenza di Marco Aurelio e dei suoi successori ad estendere il campo della ricerca d'ufficio riducendo invece quello dell'accusa privata, e scoraggiando in particolare, con pene severe, le delazioni da cui poteva avvantaggiarsi il fisco.
Marco Aurelio apriva così una pagina nuova dei rapporti fra la Chiesa (che sotto Commodo cominciò ad uscire dalla clandestinità, rivendicando la proprietà dei luoghi di culto, di riunione e di sepoltura) e l'impero. La condanna dell'accusatore di Apollonio poneva fine all'immorale situazione denunciata da Giustino (II Apol. 1sgg), in base alla quale un odio privato o un interesse personale, tradotti in una regolare denunzia di Cristianesimo, erano sufficienti per trascinare davanti ad un tribunale, per una condanna capitale, un onesto cittadino: negli anni dopo Marco Aurelio e sotto i Severi, i Cristiani nell'esercito e in Senato divennero più numerosi, come ammette lo stesso Tertulliano. L'integrazione dei Cristiani nell'impero era cominciata.
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