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ARGOMENTO: Gerusalemme 5

Gerusalemme 5 06/04/2012 13:10 #1574

GERUSALEMME

AL TEMPO DI GESÙ (5)



Oltre che per le mura, per il tempio e per tutti gli altri luoghi “toccati” da Gesù nel corso delle sue visite a Gerusalemme, l’interesse degli archeologi si è rivolto anche verso i grandi contenitori d’acqua presenti in città e verso le abitazioni private.


Una città con tante “piscine”
Al tempo di Gesù c’erano a Gerusalemme delle riserve d’acqua importanti chiamate piscine o vasche. Due di queste sono nominate nei Vangeli in occasione di miracoli.
Una è la piscina di Siloe, alimentata da un’importante condotta che porta l’acqua in città dalla sorgente di Gihon e la cui condotta risale al tempo di Ezechia. Il cieco che Gesù guarì fu mandato a questa piscina per lavarsi (Giovanni 9:7).
L’altra è la piscina chiamata in ebraico Bethesda, presso la Porta delle Pecore (gr. probatikh = delle pecore), dove Gesù guarì il paralitico ammalato da trentotto anni (Giovanni 5:1-15). Essa potrebbe essere localizzata nella zona a nord della spianata del Tempio, verso il quartiere di Bezeta. Vi sono state condotte ricerche archeologiche abbastanza minuziose, reperendo resti di colonne che potrebbero corrispondere a quelle del portico, citato in Giovanni 5:2. In effetti sul luogo sono oggi facilmente riconoscibili due bacini, uno a fianco dell’altro, circondati da colonnati.
Più arduo è invece identificare la vasca dove ebbe luogo il battesimo delle tremila persone il giorno della Pentecoste (Atti 2:41). Per mettere in guardia contro le facili suggestioni che nulla hanno a che fare con la verità storica, riferiamo un gustoso brano tratto dal libro The Archaeology of Palestine del famoso archeologo statunitense W. F. Albright, di cui abbiamo più volte parlato: “Commovente è la storia di quell’agricoltore dell’Illinois che C. C. Mc Cown ed io incontrammo, anni addietro, in un albergo di Nazareth. Costui era anche a capo di una scuola festiva rurale, di denominazione Battista, ed aveva come vicino il capo di una scuola consimile, però Metodista. Un bel giorno si trovarono impegolati in una vivace discussione sulla superiorità del battesimo per immersione nei confronti di quello per aspersione. La disputa aumentò di tono. Il Metodista si faceva forte di quello che a lui sembrava essere l’argomento più decisivo, l’impossibilità, cioè, che vi fosse stato a Gerusalemme un luogo così grande da poter permettere, in occasione della Pentecoste, la generale immersione di una così grande moltitudine di fedeli. Alla fine il Battista, effettivamente turbato dalla forza dell’argomento, pregò il vicino di volersi prendere cura degli affari della sua fattoria per tutto il tempo che gli era necessario per recarsi a Gerusalemme e farvi delle indagini. Intraprese così il lungo viaggio, affrontando notevoli disagi per gli scarsi mezzi di cui poteva disporre e, una volta in Palestina, proseguì a piedi per risparmiare denaro. Presso Nablus dei contadini arabi lo accoltellarono e lo spogliarono di tutto. In un alberghetto ebraico di Tiberiade rischiò di morire di dissenteria. Ma che luce di trionfo gli brillava negli occhi mentre ci narrava del pieno successo della sua missione dichiarando di aver misurato la piscina di Mamilla a Gerusalemme e d’aver constatato che in essa poteva benissimo aver trovato ricetto, per la festa della Pentecoste, una enorme folla di fedeli! Ora, perché mai avremmo dovuto dirgli che quella piscina, come tante altre grosse cisterne in Gerusalemme, era di epoca medievale? Le sue ultime parole prima di lasciarci furono: «E adesso vado a convertire il mio fratello Metodista!»...”.

La piscina di Mamilla si trova ad ovest della Porta di Giaffa, all’esterno della Città Vecchia. Si tratta dell’antico serbatoio Birket Mamilla, che ha ancora attorno una parte del vecchio cimitero musulmano. L’immenso serbatoio ha 90 m di lunghezza, 60 di larghezza e 6 di profondità, ed è in gran parte intagliato nella roccia. Viene nominato per la prima volta in un documento del VII secolo, ove si riferisce che nella presa di Gerusalemme da parte dei Persiani moltissimi cristiani furono martirizzati e gettati nello stagno di Mamilla, ad un tiro di freccia a ovest della città. Non si conosce l’origine del nome Mamilla. Alcuni ritengono trattarsi di una deformazione di Maximilla, il nome della moglie di un pio cristiano, tale Tommaso, che si prese cura di seppellire i martiri. Altri pensano che invece si tratti del nome del personaggio, per altro ignoto, che fece costruire la cisterna. (Cfr. D. Baldi, Guida di Terrasanta, pag. 116,117).

L’edilizia privata
Fino a pochi anni fa non si conosceva nulla sulle case di Gerusalemme del 1° secolo. Poi, in seguito a circostanze drammatiche (i violenti bombardamenti della Guerra dei Giorni nel giugno 1967), fu concesso agli archeologi di scavare nel Quartiere Ebraico, dove una volta si trovava la Città Alta, sulla Collina Occidentale].
L’équipe di scavo, condotta dal professor Nahaman Avigad assistito da Romy Reich e Zvi Maoz, ottenne in breve tempo risultati di eccezionale importanza.
Quanto all’edilizia privata, furono portati alla luce i resti di sei abitazioni del 1° secolo d.C., con molti oggetti domestici che hanno permesso di approfondire la conoscenza della vita quotidiana dell’epoca. Queste scoperte sono state utilissime per far progredire la ricerca su uno di quelli che era considerato “l’anello debole” dell’archeologia di Gerusalemme.
Infatti, in generale, dalle fonti storiche non si poteva sapere gran che sulla vita quotidiana e sulle case di abitazione, poiché tutto ciò non rientrava negli scopi degli scrittori. Per esempio, Flavio Giuseppe riferisce con ampi dettagli la storia del popolo ebraico dalle origini, e parla in particolare della guerra contro i Romani, ma non dice quasi nulla sull’ambiente e la vita ordinaria degli abitanti. Anche nel Nuovo Testamento, gli scarni accenni alla vita quotidiana e alle abitazioni sono del tutto incidentali. Fanno eccezione in parte gli scritti rabbinici (in particolare la Mishnah), che contengono talvolta descrizioni di case, compreso l’arredamento e la decorazione.
Una delle case scoperte da Avigad fu chiamata Casa Erodiana. Essa fu così definita dagli archeologi perché era dell’epoca di Erode il Grande e fu demolita sotto il suo regno per consentire una ristrutturazione viaria.
Le altre case invece furono abitate fino alla caduta di Gerusalemme e vennero distrutte col resto della città nel 70 d.C. Due di queste meritano particolare menzione: una è stata chiamata Casa Bruciata, per le evidenti tracce d’incendio, e l’altra è nota come Casa Grande, per le sue eccezionali dimensioni.
Occorre anzitutto considerare che le case scoperte appartenevano ai quartieri ricchi della città, dove abitavano tra l’altro le famiglie dei sacerdoti. Descrivendone gli ambienti lussuosi, teniamo presente che il resto degli abitanti di Gerusalemme era ben lontano dal conoscere simili agi.

La Casa Grande


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Cominciamo dalla Casa Grande. Essa aveva una superficie di ben 600 mq. Le stanze erano disposte attorno ad un cortile centrale, pavimentato con lastroni. Una grande sala di ricevimento, di m 6,5 x 11, aveva i muri rivestiti di stucchi; i muri di un’altra stanza più piccola avevano degli affreschi che simulavano elementi architettonici. In molte decorazioni i colori rosso e giallo ricordavano le pitture di Pompei. Nel bagno fu trovato un bel pavimento a mosaico.
Tra le scoperte più interessanti vanno annoverati i bagni rituali, che erano noti attraverso la letteratura rabbinica (in ebraico chiamati miqwa’ôt, sing. miqweh). Di questi bagni rituali – che non vanno confusi con le stanze da bagno normali o con le cisterne – le case di lusso ne possedevano due o anche tre. Erano stati studiati in modo che una persona potesse scendere lungo una scala e accovacciarsi sotto l’acqua. Quelli della Casa Grande avevano due porte, con una divisione lungo gli scalini, in modo che chi usciva puro dall’acqua non corresse il pericolo di contaminarsi di nuovo per un contatto accidentale con uno che vi stava scendendo.

Il concetto di purità rituale faceva parte del bagaglio tradizionale degli Ebrei, e derivava dalle prescrizioni del Levitico (capitoli 11-15), codificate nei dettagli dai Farisei. Questa purità rituale non aveva niente a che fare con la pulizia del corpo o l’igiene. Ciò non significa che la pulizia del corpo non fosse tenuta in conto; anzi, si ritiene che per conservare pulita l’acqua del miqweh ognuno si lavasse prima nel bagno privato. Invece, il bagno rituale – che consisteva in una breve ma totale immersione del corpo nudo nell’acqua – era un atto religioso ed aveva uno scopo simbolico.
Fra i recipienti di uso domestico trovati nelle case, molti erano di pietra. Infatti i rabbini di quel tempo avevano promulgato delle regole sulla propensione dei diversi materiali ad assumere una impurità rituale. Secondo queste prescrizioni, soltanto la pietra non era suscettibile di contrarre impurità, mentre per il vasellame in terracotta non c’era rimedio e, una volta sporcato, doveva essere rotto. Non conosciamo le ragioni di una simile regola. Qualcuno ritiene che l’abitudine di rompere i recipienti di terracotta, che comunque aveva uno scopo rituale, dipendesse anche dal fatto che, essendo porosi, assorbivano i liquidi e i grassi che vi si mettevano e non si riusciva più a pulirli completamente.
Oltre alla completa immersione nell’acqua della miqweh, per gli ebrei osservanti c’era tutta una serie di purificazioni per le quali occorrevano grandi quantità di acqua. In Giovanni 2:6, dove è raccontato il miracolo delle nozze di Cana (cambiamento dell’acqua in vino), è detto che i recipienti in pietra erano “del tipo adoperato per la purificazione dei Giudei”; e dalle indicazioni sulla capacità si comprende che potevano contenere dai 70 ai 100 litri. Gli archeologi hanno trovato parecchie giare di pietra di queste dimensioni nelle case di Gerusalemme.
A chiarimento dei precetti e delle pratiche sulle purificazioni rituali che i rabbini avevano aggiunto alla legge di Mosè, è utile considerare il brano di Marco 7:3-4 (inserito nel contesto della diatriba con i Farisei sulla tradizione, nata dal fatto che i discepoli di Gesù erano stati visti mangiare con mani impure, cioè non lavate). In tale passo l’evangelista ritenne opportuno spiegare ai lettori non Giudei il senso dell’arcana materia:
“I Farisei e tutti i Giudei non mangiano se non si sono lavate le mani con grande cura, seguendo la tradizione degli antichi; e quando tornano dalla piazza non mangiano senza essersi lavati. Vi sono molte altre cose che osservano per tradizione: abluzioni di calici, di boccali e di vasi di rame”.
Sulla base degli elementi ritrovati, gli archeologi hanno cercato di “ricostruire” l’imponente sala di rappresentanza della Casa Grande, che aveva le pareti e il soffitto decorati in stucco. Alcuni motivi ornamentali formavano triangoli, quadrati od ottagoni, come in alcuni soffitti a volta di Pompei.
Il pavimento di questa sala non si è conservato, ma possiamo fare riferimento a quello che è stato trovato in una casa vicina. Secondo Avigad, si tratta del più grande ed elaborato mosaico trovato in tutto il corso degli scavi.



La Casa Bruciata
Parliamo ora della Casa Bruciata. Era situata a nord della precedente, in una zona dove tutte le case erano state distrutte dal colossale incendio dell’anno 70 d.C. Essa fu la prima ad essere trovata dagli archeologi, nel 1970. Racconta Avigad che “la scoperta di questa casa sovrasta tutte le altre per la quantità di reperti, per la conservazione delle testimonianze della distruzione e dell’incendio e per l’intensità delle emozioni. In fondo è stato bene che essa sia stata la prima e che ci abbia sorpresi, meravigliati ed esposti a così profonde reazioni emotive”.
Per comprendere l’intensità delle reazioni emotive degli scopritori, dobbiamo tener conto che si trattava di archeologi israeliani. Ecco infatti la testimonianza di Romy Reich:
Gli scavi di queste case devastate e bruciate hanno ispirato sentimenti contrastanti negli archeologi impegnati in questo lavoro, compreso l’autore di queste righe... Da una parte, si trattava della distruzione della città dei nostri antenati, una distruzione che ha provocato 1900 anni di esilio per il popolo ebraico. Dall’altra parte, fu proprio soltanto la brutalità di tale distruzione a far sì che le case abbiano conservato il loro arredamento a posto, ricca messe per gli archeologi di oggi”.
La Casa Bruciata comprendeva un piccolo cortile, quattro stanze, una cucina e un bagno rituale.
La casa custodiva molti recipienti: marmitte, scodelle, vasi, anfore, mortai, e soprattutto grandi giare di pietra.
Fu trovato anche un grande tavolo, anch’esso in pietra, finemente decorato sui bordi, fornito di un sostegno centrale di forma cilindrica, dell’altezza di un normale tavolo attuale. Secondo Avigad, esso è “l’unico del genere finora trovato negli scavi in tutto il paese d’Israele”.


Il graffito della menorah
A Gerusalemme le macerie di costruzioni precedenti venivano utilizzate come materiale di riempimento (la pratica è dovunque in uso anche oggi). Rovistare tra questi “riporti” può procurare talvolta piacevoli sorprese agli archeologi. Vi si possono trovare monete, più spesso cocci di vasellame, e frammenti di muratura che hanno conservato l’intonaco. E, caso piuttosto raro, può capitare che sull’intonaco ci siano dei graffiti, come nel caso del “graffito della menorah” (il candelabro a sette bracci), il cui ritrovamento ha suscitato sensazione in tutto il mondo .
Dice Avigad: “Colui che lo aveva inciso doveva conoscere bene la menorah del Tempio, che distava solo 270 m dalla sua casa; è difficile sapere però fino a che punto ne abbia tramandato un’immagine fedele e fin dove abbia approfondito nel disegno il suo aspetto artistico, perché il lavoro era stato fatto sommariamente e schematicamente. Ma, considerata la sua forma originale, si può supporre che rispecchiasse il candelabro originale ...”.


La sinagoga dei Liberti
In Atti 6:9 sg., il racconto del martirio di Stefano comincia così:
“Alcuni della sinagoga detta dei Liberti (...) istigarono degli uomini che dissero [di Stefano]: Noi lo abbiamo udito bestemmiare...” (...), e lo afferrarono e lo condussero al sinedrio ...”.
Questo episodio va inserito tra la nascita della comunità cristiana a Gerusalemme e la conversione di Paolo (cioè circa tra l’anno 30 e il 36).
C’era dunque a Gerusalemme al tempo di Gesù una sinagoga detta dei Liberti. Questa notizia è stata messa in relazione con una interessante iscrizione in greco, scoperta dal capitano Raymond Weill in una cisterna sulla collina sud-orientale di Gerusalemme durante gli scavi del 1914, e pubblicata nel 1920. Il testo parla della costruzione di una sinagoga da parte di un certo Teodoto.
Ecco la traduzione completa: "Teodoto, figlio di Vetteno, sacerdote e capo della sinagoga, ha costruito la sinagoga per la lettura della Legge e l’insegnamento dei comandamenti, e [ha edificato] l’ospizio, le stanze e le riserve idriche al fine di alloggiare quelli che vengono da lontano e che hanno bisogno; la quale [sinagoga] avevano fondata suo padre e gli anziani e Simonide”.
A parte l’interesse di aver scoperto traccia di una sinagoga a Gerusalemme, cosa in sé stessa piuttosto rara, la possibilità di collegarla con quella “dei Liberti” ricordata in Atti 6:9 sta nell’interpretazione che si dà al nome Vetteno. Secondo alcuni infatti, il nome Vetteno indica che Teodoto era figlio (o nipote) di un liberto giudeo d’Italia, che aveva ricevuto il suo nome dalla famiglia dei Vetteni (gens Vettena o Vettia), una famiglia romana ben conosciuta. I liberti (schiavi affrancati) prendevano sovente il nome della famiglia del loro liberatore. Si può presumere che l’antenato giudeo fosse stato portato prigioniero in Italia all’epoca di Pompeo. Questa opinione è stata sostenuta da Clermont-Ganneau e Vincent, e si trova ribadita con forza da W. F. Albright:
“Ovviamente Teodoto aveva ricevuto il nome dalla famiglia romana dei Vetteni (gens Vettena) e perciò egli, o un suo antenato, doveva essere stato uno schiavo emancipato proveniente dall’Italia. Di conseguenza ci sono tutte le buone ragioni per ricollegare questa sinagoga con la «Sinagoga dei Liberti» menzionata in Atti 6:9...”.
Di tutt’altro parere è invece Emilio Gabba il quale, appoggiandosi sulle convinzioni di Lietzmann e Deissmann, afferma:
“L’ipotesi del Clermont-Ganneau, accolta dal Vincent, che bisognasse intendere Vettienus e che vi fosse una qualche relazione fra il padre del nostro [Teodoto] e la gens Vettia è infondata. (...) Che [Vetteno] fosse un liberto è possibile, per quanto (...) la forma del nome non possa essere una prova; l’identificazione [della sinagoga di Teodoto con quella dei Liberti di Atti 6:9] resta, per altro, una pura possibilità, neppure molto probabile”.
Avendo messo in evidenza anche in questo caso il parere discordante degli esperti, vogliamo ribadire una volta di più l’invito alla prudenza, che spesso molti divulgatori di Archeologia Biblica, mossi dall’entusiasmo, mettono disinvoltamente da parte.

Terminiamo qui l’esame delle scoperte archeologiche della Gerusalemme al tempo di Gesù. Oltre a quelli prima descritti, altri luoghi vengono oggi mostrati ai visitatori (Cenacolo, Casa del Sommo Sacerdote, Getsemani, ecc.), che sono soltanto legati alla tradizione, non essendo stato possibile finora alcun riscontro scientifico serio. Ciò non significa che questi luoghi non potrebbero corrispondere a quelli descritti nei Vangeli, ma si resta nel campo delle congetture. Abbiamo pure accennato alla lunga e tormentata storia delle occupazioni e delle distruzioni che la Città Santa dovette subire nel corso dei secoli, le quali hanno contribuito in modo determinante ad alterare l’aspetto dei luoghi.
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