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ARGOMENTO: Testimonianze storiche su Atti

Testimonianze storiche su Atti 26/04/2012 23:15 #2289

TESTIMONIANZE STORICHE SUL LIBRO DEGLI ATTI (1)


Esaminiamo in questo primo articolo le testimonianze relative all’Etiopia, regione dalla quale proveniva l’eunuco convertito per la strumentalità di Filippo, e alla città di Damasco, divenuta famosa per la conversione di Saulo da Tarso che succederà a Pietro come protagonista delle vicende narrate nel libro.



Luca lo storico

Nella seconda metà del XIX secolo l’opinione dei critici radicali della scuola di Tubinga era che l’autore del libro degli Atti — un anonimo del 2° secolo — si era intenzionalmente distaccato dalla verità storica per seguire suoi determinati fini.

Secondo costoro egli si era ripromesso di “dare una verniciata sopra al conflitto fra Pietro e Paolo, pesantemente incombente (si asseriva) sui primi anni della chiesa; Atti dava così il quadro di uno smussato compromesso e mascherava le realtà del conflitto”.
Un cambiamento d’opinione si ebbe con le ricerche di Ramsay il quale, alla fine del secolo scorso, cercò di provare che l’ambiente storico, topografico e politico del Vangelo di Luca, e soprattutto del libro degli Atti, rivelavano da parte dello scrittore una conoscenza intima del 1° secolo dell’era cristiana.

Senza voler sminuire il lavoro di Ramsay, occorre riconoscere tuttavia che questo ricercatore si spinse a fare alcune asserzioni sull’accuratezza storica di Luca che andavano al di là di quanto potesse essere provato dall’evidenza allora disponibile.

In seguito, il discorso sulla storicità degli Atti fu ripreso da altri studiosi con una reazione scettica, impostata soprattutto sulla critica della forma e la critica della redazione. Secondo l’opinione di costoro, “i circoli della chiesa preposti a preservare e trasmettere le tradizioni e poi ad incorporarle negli scritti avevano motivazioni teologiche e perciò non avevano interesse a quanto era realmente accaduto e/o erano incapaci di fare dei controlli per vedere quali fossero i fatti storici. Cioè, la chiesa primitiva non si interessava alla storia”.

Oggi noi siamo in posizione migliore rispetto a Ramsay, disponendo di molti risultati archeologici per poter difendere l’attendibilità storica degli Atti.

Thompson ricorda che “Oggi viene largamente ammesso che Luca, l’autore del terzo Vangelo e degli Atti degli Apostoli era uno storico di prim’ordine”.

Tuttavia, anche quando si riuscisse a dimostrare che l’autore ritrasse la scena del primo secolo con grande precisione, compresi alcuni particolari minimi di natura politica di Roma, dell’Asia e della Grecia, ciò non convincerebbe gli studiosi di cui sopra. Infatti quelli si immaginano un Luca simile a un autore moderno di romanzi storici, il quale si ingegna di dare verosimiglianza alla sua narrazione curando con ogni scrupolo i dettagli ambientali, che tuttavia non forniscono alcuna prova sulla veridicità della trama.

Ci sembra che anche in questo caso il problema si possa ricondurre ai presupposti. S

e uno studioso parte dalla convinzione che tutti (o quasi tutti) il libri neotestamentari sono rielaborazioni teologiche tardive di precedenti tradizioni, concluderà che le evidenze archeologiche sono soltanto una prova dell’impegno dei redattori per rendere credibili le vicende narrate. Viceversa, per chi è disposto a credere, senza dover necessariamente dipendere da prove, che i racconti neotestamentari riflettono la verità storica, ogni conferma archeologica sarà motivo di sincera soddisfazione.

E con questo spirito che vanno considerate le note che seguono, le quali non hanno comunque la pretesa di esaurire l’argomento.
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Re: Testimonianze storiche su Atti 26/04/2012 23:16 #2290

Filippo e il ministro etiope

Secondo il racconto di Atti 8:26-39 l’evangelista Filippo viene indotto da un messaggero celeste a recarsi in una strada deserta che va da Gerusalemme al mare.

Filippo ubbidisce e, stranamente, incontra su quella strada un altro viaggiatore.

Si tratta di un personaggio di rango, definito come “un etiope, eunuco e ministro di Candace regina d’Etiopia”, sovrintendente a tutti i tesori di lei”, il quale era venuto a Gerusalemme per adorare e ora stava tornandosene a casa, seduto sul suo carro e intento alla lettura del profeta Isaia.

Se questo etiope era andato a Gerusalemme per adorare, poteva considerarsi un timorato di Dio, definizione che indica quegli stranieri che, pur senza arrivare a farsi circoncidere, dimostravano aperta simpatia per la religione degli Ebrei. Si era recato a Gerusalemme in occasione di una delle grandi feste, ed ora ci viene descritto sulla via del ritorno, viaggiando verso Gaza su un carro, probabilmente trainato da buoi (sarebbe poi arrivato in nave al Delta, di dove avrebbe proseguito, sempre per nave, verso il sud risalendo la corrente del Nilo).

Durante il tragitto, per passare il tempo, leggeva ad alta voce il rotolo che aveva acquistato a Gerusalemme: quello di un profeta tra i più famosi, Isaia, certamente nella versione greca dei Settanta.



“Etiopia” era il nome che i Greci davano al paese a sud della Prima Cataratta, corrispondente all’antica Nubia (oggi Sudan), che quindi non ha niente a che vedere con l’attuale Etiopia.

Gli abitanti di quell’antica regione sono noti agli egittologi come “Meroiti”, in base al nome del loro centro principale Meroe.

Il loro territorio era chiamato nell’ebraico dell’Antico Testamento il “paese di Kush” (2 Re 19:9; Isaia 37:9; Ester 1:9; Ezechiele 29:10), tradotto in tutte le versioni italiane con “Etiopia”.

La storia della terra di Kush è nota in dettaglio a partire dall’VIII secolo a.C.: ad un lungo periodo di egittizzazione da parte dei faraoni del Nuovo Regno, era seguito un periodo chiamato Ascesa degli Etiopici, quando costoro, per circa un secolo, riuscirono a dominare anche l’Egitto.

Uno dei loro sovrani, Taharqa, è ricordato dall’Antico Testamento come re dell’Etiopia (ebr. re di Kush).

Per riferirsi al nostro episodio, è interessante considerare ciò che l’archeologia ha appurato sul regno meroitico nel periodo dal III secolo a.C. al IV secolo d.C.

Secondo fonti greche, a Meroe le regine madri ricevevano il nome (o titolo) di Candace (= madre del re), ed oggi gli egittologi sono convinti che essa era la seconda persona subito dopo il sovrano, ma che in molti casi questa candace poteva occupare anche la prima posizione.

Un caso tipico è quello della regina Amanishakete, al potere nella seconda metà del 1° secolo a.C., di cui sono state trovate molte raffigurazioni nella cappella funeraria della sua piramide a Meroe.

Ciò rende perfettamente plausibile il caso della Candace degli Atti, che viene definita regina d’Etiopia.



È detto poi che il funzionario etiope era sovrintendente a tutti i tesori della regina.

Il sovrano (o la sovrana) faceva talvolta deporre parte del tesoro personale nella sua piramide come corredo funerario.

Così infatti fece la candace Amanishakete, il cui tesoro, scoperto nel 1837 da un italiano, è oggi custodito nei Musei di Monaco e di Berlino (questo tesoro, noto come “l’oro di Meroe” è stato esposto al Museo Egizio di Torino in una mostra temporanea nel 1995). La stupenda fattura di questi gioielli e la loro abbondanza (cammei, anelli, sigilli, collane, pendagli, tazze, bracciali) ci possono dare un’idea di quale fosse il tesoro di cui era sovrintendente il ministro etiope del racconto neotestamentario.

Non siamo in grado di sapere se la conversione del “tesoriere di Candace” ebbe un seguito, dal momento che sia le fonti letterarie sia l’archeologia non ci hanno fornito informazioni su un’eventuale diffusione del cristianesimo in “Etiopia” nel 1° secolo.

Apprendiamo comunque da Strabone che i Romani dovettero fronteggiare proprio nel 1° secolo una grande offensiva della “Candace” di Meroe e, successivamente, di altre popolazioni di quella turbolenta regione situata al limite meridionale dell’impero.

Giudicando troppo onerosa l’occupazione di quel territorio, i Romani lo concessero poi ai Nobadi (i Nubiani delle grandi oasi), che vi si trasferirono.

Ciò avvenne verso la fine del III secolo, all’epoca di Diocleziano.

Furono proprio i Nobadi ad avere i primi contatti con missionari cristiani ed a convertirsi, subendo anche le persecuzioni dei bellicosi popoli vicini, che continuavano a seguire i culti di Iside.

Poi nel IV secolo il regno di Meroe, più a sud, entrò in crisi, e la sua decadenza aprì anche nell’Alta Nubia la strada ai missionari.

Infine, nel VI secolo (epoca bizantina, periodo di Giustiniano), l’intera “Etiopia” si trovò ad essere ripartita in tre “regni cristiani”: a nord il regno dei Nobadi già visti prima, o Nobatia (la regione è oggi in gran parte seppellita dalle acque del lago Nasser); al centro il regno di Makuria (Alta Nubia, regione di Napata e Meroe); a sud il regno di Aloa (alla confluenza del Nilo Bianco col Nilo Azzurro).

Questi “regni cristiani” furono tuttavia afflitti dalle controversie teologiche intorno alla natura di Cristo (monofisiti e duofisiti) che dilaniavano all’epoca le alte sfere del cristianesimo e che provocarono in quei lontani paesi feroci lotte senza esclusione di colpi.

  • stefano
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Re: Testimonianze storiche su Atti 26/04/2012 23:18 #2292

La strada per Damasco

È ben noto il racconto della conversione di Saulo sulla via di Damasco (Atti 9:1-22), evento cruciale nella vita del futuro Apostolo dei Gentili, ma anche punto di svolta di tutta la storia della diffusione del cristianesimo.

Partendo da questa vicenda avremo modo di affrontare il discorso sulla viabilità e i mezzi di comunicazione del 1° secolo, e anche di esaminare la situazione della città di Damasco e della cosiddetta Arabia, dove Saulo ebbe a soggiornare prima di iniziare la sua attività missionaria.

Saulo era dunque un giovane fariseo, nativo di Tarso in Cilicia.

La Cilicia era una regione montuosa del sud-est dell’Anatolia, ai piedi della catena del tauro. Le colline ospitavano vasti allevamenti di capre, che fornivano pelli e pelo rigido atti a confezionare indumenti e tende (lo stesso Saulo, come sappiamo, aveva imparato il mestiere di fabbricante di tende).

Da “Cilicia” deriva anche la parola italiana cilicio, usata per indicare un indumento confezionato con ruvida lana di capra.

Quando Saulo arrivò a Gerusalemme per studiare ai piedi del rabbino Gamaliele, forse non era passato molto tempo dalla crocifissione di Gesù, avvenuta nell’anno 30.

Non sembra che Saulo prestasse all’inizio soverchia attenzione alla predicazione dei discepoli dei Cristo, salvo poi sentirsi portato a seguire le indicazioni del sinedrio, quando questo decise di stroncare con la forza il cristianesimo nascente (il testo di Atti 8:1 precisa infatti che il giovane Saulo era completamente d’accordo con gli uccisori di Stefano).

Sempre più immerso nell’azione repressiva, lo vediamo poi “devastare la chiesa “, trascinandone in prigione i membri (Atti 8:3), ed infine proporsi presso il sinedrio per un’azione persecutoria nella lontana Damasco, dove alcuni membri della sinagoga locale si diceva stessero seguendo la nuova dottrina (Atti 9:1,2).

Damasco distava da Gerusalemme circa 240 km.

Si trattava quindi di effettuare un viaggio di alcuni giorni, che Paolo fece con una scorta armata, probabilmente in parte a piedi e in parte a dorso d’asino.

Non ci è detto quale percorso il gruppo abbia seguito.

Forse si avviò lungo la dorsale montuosa fino a Sicar, per poi scendere a Scitopoli e passare vicino a Hippos. Comunque, dovette poi raggiungere le alture ad est del Mar di Galilea (le odierne alture del Golan) inoltrandosi poi sull’altopiano basaltico verso Damasco.
In generale, il tracciato delle strade antiche della Palestina-Siria è noto. Tuttavia le strade romane che ci sono familiari, col loro tipico basolato di lastroni poligonali, compaiono solo nel 2° secolo, con l’eccezione forse della strada costiera che collegava Antiochia a Tolemaide (Acco).

E’ vero che Flavio Giuseppe parla di corrieri dell’esercito romano che percorrevano le strade della Palestina all’epoca della prima rivolta giudaica (66-70), ma dobbiamo presumere che esse fossero in linea di massima mal tenute, e praticabili soltanto per una parte dell’anno.

La rete stradale romana, nel periodo del massimo sviluppo dell’impero, si estese per decine di migliaia di chilometri.

Quando le strade lo consentivano, si poteva viaggiare su carri a quattro ruote, trainati da buoi o cavalli (così infatti abbiamo visto che viaggiava il ministro etiope).

Alcuni carri erano anche attrezzati per trascorrervi la notte (carruca dormitoria, vere carrozze letto!). Tuttavia non fu certo questo il caso di Paolo, che compì la maggior parte dei suoi percorsi terrestri a piedi o a dorso d’asino.

Riprendendo il racconto sulle vicende di Paolo, sappiamo che venne fulminato da una visione celeste in prossimità di Damasco, poi venne condotto dai suoi compagni nella città, dove venne battezzato da un discepolo di nome Anania, ricevette lo Spirito Santo e ricuperò la vista.

E a questo punto si mise a predicare nelle sinagoghe che Gesù è il Cristo (Atti 9:22).

Non aveva bisogno di essere istruito da nessuno, poiché già conosceva a fondo gli argomenti di quel cristianesimo che voleva distruggere (aveva infatti ascoltato con attenzione il discorso di Stefano!). Ma presto da persecutore diventa perseguitato; e per scampare alla morte è costretto a farsi calare in una cesta fuori dal muro di cinta della città, le cui porte erano tutte attentamente sorvegliate (Atti 9:25).

Ben poco è rimasto della Damasco del 1° secolo, salvo la Via detta Diritta (Atti 9:11), che taglia la città da est a ovest e conserva ancora notevoli resti del doppio colonnato che la fiancheggiava.

Però esiste ancora una casa a sbalzo sui bastioni (di epoca assai posteriore all’episodio narrato) che viene mostrata ai visitatori per far capire in che modo Paolo poté essere calato fuori delle mura e fuggire dalla città.

Dal racconto di Atti apprendiamo che la fuga di Paolo nella cesta avvenne “dopo molti giorni” dalla sua prima predicazione a Damasco. In effetti, come riferirà lui stesso ai Galati (Atti 1:16, 17), Paolo aveva lasciato Damasco una prima volta di sua libera iniziativa, per andare a trascorrere un periodo di riflessione in Arabia.

Probabilmente Paolo aveva bisogno di pensare a tutta quanta la sua posizione alla luce della nuova rivelazione; e per farlo, non gli erano necessari i consigli di qualcuno, ma la quiete.

Forse gli saranno tornate in mente le parole del suo maestro Gamaliele (anche lui un discepolo occulto?), quando cercò di mettere in guardia il sinedrio dal perseguitare i discepoli di Cristo: “Tenetevi lontani da questi uomini, perché se questo disegno o quest’opera è dagli uomini, sarà distrutta; ma se è da Dio, voi non potrete distruggerli, se non volete trovarvi a combattere anche contro Dio” (vedi il consiglio di Gamaliele in Atti 5:33-42).

Ed infatti questa era stata la sua personale esperienza: si era messo a combattere contro Dio, ed era stato fermato. Ma la cosa più straordinaria era che lui ora si rendeva conto che Dio lo aveva scelto fin dal seno di sua madre, per essere uno strumento per portare il Vangelo fino alle estremità del mondo (Galati 1:15,16).

Era veramente il caso di fermarsi un po’ di tempo a riflettere!

Dobbiamo fare attenzione al nome Arabia.

Esso non indica la penisola che oggi conosciamo come tale. Piuttosto, designava una parte della regione dei Nabatei, che comprendeva anche la città di Damasco, e che era sottoposta al governo del re Areta IV, come vedremo fra poco (quindi, col termine Arabia, potrebbe essere stato indicato anche solo un sito solitario nelle vicinanze di Damasco. Tuttavia, non si può escludere che Paolo abbia trascorso quel periodo di meditazione anche più lontano, forse addirittura nella capitale Petra!).

Poi, passato un certo tempo (qualche mese o forse anche un paio d’anni), ecco che Paolo fa ritorno a Damasco per riprendere la sua ardente predicazione, ma questa volta i Giudei della città sanno guadagnare dalla loro parte il favore del governatore (in greco etnarca) del re Areta per farlo uccidere.

Ed è a questo punto che va collocata la fuga nella cesta.

Il riferimento al governatore del re Areta si trova in 2 Corinzi 11:32,33, dove Paolo racconta lo stesso episodio di Atti 9:25 con qualche dettaglio in più.

L’analisi comparata dei passi di Atti, Galati e 2 Corinzi ci permette così di ricostruire il soggiorno di Paolo a Damasco collocandolo nel contesto storico che oggi ci è noto attraverso le fonti letterarie e le ricerche archeologiche. Sappiamo infatti che il re Areta IV aveva governato la patria dei Nabatei, che si estendeva dal Mar Rosso all’Eufrate, dal 9 a.C. al 40 d.C., e si era meritato il bel soprannome greco di Filodemo, cioè “colui che ama il suo popolo”.

La capitale del regno dei Nabatei era Petra (chiamata Requem da Flavio Giuseppe), la splendida “perla rosa” del deserto, che così tanto oggi affascina i visitatori.

Areta IV era anche quello che aveva dato in sposa una figlia a Erode Antipa, che poi la ripudiò per prendersi Erodiada, la moglie di un suo fratellastro.

Siccome Areta regnò fino al 40, la fuga di Paolo da Damasco va dunque collocata prima del 40. Per i motivi che illustreremo più avanti parlando della Cronologia di Paolo, molti studiosi ritengono che essa ebbe luogo nell’anno 38.

Quanto ai Nabatei, oggi sappiamo che essi avevano il controllo assoluto di alcune importanti strade carovaniere.

Erano eccellenti ceramisti, ma soprattutto abili ingegneri idraulici. Esperti nello scavo delle cisterne, avevano anche inventato sistemi ingegnosi per l’approvvigionamento e la distribuzione dell’acqua, per mezzo di dighe e canali.

Le scoperte archeologiche hanno mostrato come essi irrigavano le loro aziende agricole, sebbene alcune tecniche idrauliche non siano ancora state comprese.

Tuttavia, oltre ad essere versati in idraulica e in agronomia, i Nabatei erano forse anche esperti nell’arte di arricchirsi a spese degli altri.

Alcuni studiosi, un po’ maliziosamente, ritengono che la loro prosperità provenisse dalle estorsioni, più che dalle tasse, a cui venivano sottoposte le carovane che viaggiavano lungo la Via dell’incenso.

Quanto a Petra, la capitale scoperta nella prima metà del secolo scorso, per dirla con uno dei primi esploratori (Laborde), “essa è il più singolare spettacolo, il più magico quadro che la natura e gli uomini, nella loro vanitosa ambizione, abbiano destinato alle future generazioni”.

I suoi monumenti, più che costruiti, furono scavati nella roccia, e l’arte rupestre non ha mai raggiunto come a Petra una tale audacia e una così perfetta bellezza.

Ma come si presentava la città all’epoca del suo splendore?

La popolazione, che comprendeva alcune migliaia di abitanti, certamente aveva case, stalle e depositi per le merci.

Ma di quelle costruzioni, fatte di terra legno e frasche, non è rimasta alcuna traccia!

Ai visitatori di oggi si presenta una città spoglia di tutto ciò che riguardava il quadro della vita quotidiana, mentre sono rimasti, perché scavati nella pietra, solo i sepolcri dei grandi personaggi e qualche monumento sacro dedicato agli dèi.

Questa osservazione è da tener presente tutte le volte che si visita un luogo cosparso di resti archeologici e si tenta di ricostruire con l’immaginazione la vita della gente che vi dimorava.
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